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Incomprensibile – Il decreto lavoro premia chi non studia

“Io non so davvero cosa fare e spero di essere incappata in un caso limite. Mi chiedo però come sia stato possibile concepire una legge che premiando i giovani privi di diploma rischia di incentivare l’abbandono scolastico. È l’ennesima umiliazione del mio lavoro come di quello di tanti colleghi che nonostante tutto buttano il cuore e l’anima oltre le carenze strutturali della pubblica istruzione. Mi domando a questo punto quale senso abbia il mio lavoro”. Così si chiude la lettera firmata da una prof di un istituto tecnico della periferia romana, recapitata e pubblicata (dopo i dovuti controlli) da “Repubblica” qualche giorno fa, che ha scatenato l’attenzione dei media.

La lettera sembrava scritta da un’insegnante in commissione interna di Esame di Stato, alla quale il padre di uno studente meritevole avrebbe chiesto di bocciare il proprio figlio per poter usufruire dei vantaggi offerti dal decreto lavoro dagli incentivi all’assunzione stabile dei giovani tra i 18 e i 29 anni: tetto di 650 euro al mese e 18 mesi per le nuove assunzioni e 12 per le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato.

Le condizioni per poter prevedere tali incentivi sembravano inizialmente la mancanza di un impiego regolarmente retribuito da almeno 6 mesi; la mancanza di un diploma di scuola media superiore; vivere da solo con una o più persone a carico. Missione impossibile, ha tuonato Beppe Grillo dal suo blog: per accedere agli incentivi devi essere un disoccupato cronico, un semianalfabeta, avere a carico la vecchia nonna o moglie e figli. Non gli si poteva dar torto. Pronta la precisazione di Monica Nardi, responsabile della comunicazione del premier Letta, che faceva sapere che per accedere agli sgravi occorre soddisfare solo una delle 3 caratteristiche. Il ministro Giovannini correggeva in serata in “o” le “e” del testo della norma.

Nonostante la precisazione, la lettera della prof faceva luce su una condizione istituzionalizzata in qualche modo dal decreto lavoro: l’assenza di riconoscimento da parte della politica e della società di una funzione fondativa della scuola, in termini di identità culturale e di cittadinanza; l’assenza dell’idea che un lavoratore (sebbene giovane e qualsiasi lavoro svolga) sarà un lavoratore migliore se avrà studiato.

L’incapacità, anche del governo Letta, di mettere mano al fenomeno dei Neet (Not in Education, Employment or Training): giovani non più inseriti in un percorso scolastico/formativo, ma neppure impegnati in un’attività lavorativa. Non studiano e non lavorano. Hanno dai 15 ai 29 anni e nel 2012 sono arrivati a 2 milioni 250mila, pari al 23.9%. Vuol dire che in Italia un giovane di quella fascia di età su 4 si trova in quella terribile condizione. Si tratta della quota più alta in Europa) attraverso la scuola, cioè restituendo a coloro che abbandonano il percorso di studio un’istituzione in grado di accoglierli e reintrodurli nel sistema di istruzione.

Fare leva sul soddisfacimento di un bisogno drammatico ed immediato, quello del lavoro, soprattutto oggi, depotenziando l’investimento a lungo raggio e per tutto l’arco della vita sulla cultura, sulla cittadinanza, su un’identità più completa rappresentato dalla possibilità/obbligo di frequentare la scuola almeno fino al compimento degli studi superiori.

Il dibattito non è nuovo, tanto più che il nostro Paese (che da tempo e nella pratica ha rinunciato ad investire sulla scuola) chiama assolvimento dell’obbligo di istruzione tanto il conseguimento della certificazione alla conclusione del I biennio di scuola superiore, tanto l’apprendistato di chi a scuola non va o non può permettersi di andare.

Il colpo di scena nel pomeriggio di ieri: la lettera non è stata scritta da una brava e democratica insegnante, ma dall’altrettanto bravo copywiter della Kook Artgency: “L’idea è nata dalla delusione per il decreto lavoro ma più in generale dalla completa assenza di una politica economica del governo Letta. Nessuna risposta ai problemi delle imprese e nemmeno a quelle del lavoro. Per una micro impresa come la nostra, in cui i soci sono anche lavoratori, questo vuol dire essere colpiti due volte. Come imprenditori e come lavoratori.

Nel nostro piccolo cerchiamo di conservare la nostra eticità, siamo onesti contribuenti, paghiamo subito i fornitori e, diversamente da quanto fanno la gran parte dei nostri concorrenti, non utilizziamo lo stage come strumento di lavoro (www.nostage.info)”. Un lavoro davvero ben fatto, che ha avuto il merito di sollevare – prof o no – il dibattito su un provvedimento che sembra suggerire l’idea che sempre più la scuola, da strumento di inclusione, del principio di uguaglianza e dell’espressione delle potenzialità individuali – stia diventando strumento di amplificazione delle differenze su base socio-economica. La dispersione e il ritardo scolastico sono infatti prevalentemente a carico delle fasce deboli della popolazione, nell’unico Paese europeo in cui, dal 1995 ad oggi, non è aumentata la spesa per studente nella scuola primaria e secondaria, nell’ennesima di quelle curiose “controtendenze” rispetto a quell’Europa le cui ipotetiche richieste vanno sempre soddisfatte, le cui tendenze vanno tenacemente accuratamente ignorate.

La lusinga di un lavoro immediato inevitabilmente andrà ad amplificare il gap tra chi ha bisogno e chi meno o no del tutto. Non passa nel nostro Paese un cambiamento di prospettiva che forse indicherebbe un percorso differente: la vera “sfiga” non è lavorare, ma non studiare.

Globalist

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