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Rinnovo del contratto scuola 2020, il documento di S.B.C sulla parte economica

Documento della S.B.C. su parte economica contratto

Se vogliamo ripercorrere l’ultimo decennio sul trattamento economico dei docenti e del personale ATA in Italia, tre dati saltano agli occhi:

• la spesa complessiva dello Stato italiano per scuola, innovazione e ricerca, che rispetto al Pil, è stata mediamente molto inferiore in confronto agli altri Paesi europei;

• la retribuzione degli insegnanti, anch’essa molto inferiore alla media degli altri Paesi europei;

• il blocco dei contratti nazionali, diventati triennali, che si è prolungato dal 2009 fino al piccolo incremento netto medio di cinquanta euro con il contratto 2016/2018, firmato alla scadenza di quegli anni e non all’inizio del periodo, come accade sempre più spesso per tutti i contratti collettivi nazionali, e con la cifra effettiva di incremento soltanto nell’ultimo anno a regime.

Per questi tre motivi parliamo di “contratto di risarcimento” e non del solito rinnovo “ordinario” 2018/2021, poiché non si è tenuto conto del mancato riconoscimento economico della funzione docente e del personale amministrativo, tecnico e ausiliario della Scuola per quasi dieci lunghi anni, compreso l’allungamento degli scaglioni per gli scatti automatici di stipendio e l’annullamento per tutti dello scatto del 2013.

Siamo una categoria complessa, nei confronti della quale chi non voleva né aumenti stipendiali per tutti né il riconoscimento dell’anzianità di servizio come “merito”, come avviene in tutto il mondo, ha avuto gioco facile con bonus di fedeltà al dirigente, carte docenti irrilevanti nello stato di servizio e inutili dal punto di vista contributivo, discriminazioni che oggi si teorizzano con proposte di regionalizzazione differenziata, super aumento alla dirigenza scolastica in un colpo solo. Tutte amenità che minano ulteriormente la precaria unità di una categoria già fortemente condizionata dalla divisione interna voluta dalla legge 107/2015, la quale non a caso spinge sempre più verso una funzione impiegatizia di tipo aziendale al servizio dell’economia, delle competenze piuttosto che delle conoscenze, governata dall’individualismo e dalla competizione e che prescinde dalla funzione principale che è l’insegnamento in classe.

Si delinea dunque una scuola che, nello spirito della 107, sarebbe quella voluta da Confindustria, da Treelle e Fondazione Agnelli, valutata globalmente ed indiscriminatamente da organismi arbitrari come Invalsi, che indirettamente pretenderebbero di valutare anche i docenti, sui quali, nel microcosmo delle singole autonomie scolastiche, la valutazione artefatta di quanti operano nel team del dirigente scolastico e delle RSU impera e distingue per “merito”, giudicando sulla base dell’operosità in innumerevoli progetti inutili e dispendiosi, della pronta disponibilità alla cosiddetta formazione in itinere, della solerzia in crescenti adempimenti burocratici scaricati sugli insegnanti e da loro pretesi, e chi più ne ha più ne metta.

All’origine del riconoscimento economico non è mai soltanto il Ministro della Pubblica Istruzione, né soltanto i sindacati che trattano con lui di scuola, e che non sono mai riusciti a fare un discorso di sistema sulla centralità della Scuola vista come indispensabile per la crescita economica e culturale dell’intero Paese; all’origine c’è sempre la volontà del Governo, del Parlamento e delle forze politiche nel loro complesso, nelle cui decisioni si riflette il grado di civiltà educativa e si misura l’immagine complessiva dello sviluppo economico e civile voluto per la Scuola: in breve l’idea di un futuro che l’Italia dovrebbe avere ben chiaro per risollevarsi.

Quando, dunque, chiediamo per i docenti un riconoscimento economico di tale portata, 200 euro netti al mese di aumento in un triennio quale risarcimento e parziale allineamento al trattamento dei docenti negli altri Paesi, chiediamo molto di più della semplice monetizzazione di una funzione: chiediamo il rispetto e la centralità della Scuola in un Paese, come l’Italia, dove quel rispetto e quella centralità si è persa.

La scuola pubblica è un bene comune, fa parte dei diritti universali del cittadino, non è un semplice servizio ma un’Istituzione entro la Costituzione Italiana. Chi vi lavora ha diritto a riconoscimento, rispetto e dignità, poiché non è un missionario ma un professionista altamente formato, specializzato e selezionato.

Se, come è stato fatto anche nel recente passato, la categoria insieme a tutti i sindacati riuscisse a tenere un profilo alto e di unità sostanziale e si muovesse anche con adeguate iniziative di ferma protesta, sarebbe semplice chiedere subito 200 euro senza tenere conto dell’attuale situazione economica e finanziaria del nostro Paese e senza indicare come fare per trovare le risorse, anche all’interno della spesa per l’istruzione, risorse che comunque non basterebbero senza una consistente quota aggiuntiva da parte dello Stato.

Ma siamo gente responsabile e non vogliamo fare facile demagogia.

Dove trovare dunque i soldi? Lo abbiamo indicato da anni, individuando sprechi interni e contentini vari dei governi di turno, risorse che, per avere una dignità, devono entrare nello stipendio, come la carta docenti e i bonus; va inoltre abolito il carrozzone dell’Invalsi, vanno ridotti gli apparati ministeriali e la pletora di consulenti, esperti e funzionari (molti dei quali di origine e nomina politica) al centro e nelle direzioni regionali del Miur, va previsto l’inserimento nel contratto del 50% del Fis, va infine distinto il contratto per la funzione docente dai finanziamenti previsti per il pubblico impiego, dove esistono altre forme di incremento e progressione di carriera.

Secondo il gruppo Scuola Bene Comune, i finanziamenti sono recuperabili dalla riduzione del 70% dei fondi per alternanza scuola lavoro, dalla riduzione della quota per il finanziamento alle scuole paritarie nonché dalla prevista riduzione del numero dei Deputati e dei Senatori o delle loro indennità. Ma tutto questo porterebbe ad un risparmio, da destinare interamente al nuovo contratto insieme alle previsioni di bilancio e consuntivo del vecchio governo, ancora insufficiente, utile solo all’incremento di appena 100 euro netti (che si precisa, a tutti i livelli, devono essere netti) per il solo 2019, ed in termini solo di arretrati, mentre niente sarebbe previsto per il 2020 e il 2021.

Allora, sì all’aumento “a tre cifre” di 100 euro netti per il 2019, ma guardiamo decisamente e con altra ottica anche ai successivi due anni, quelli che chiuderanno il contratto triennale, al fine di recuperare ancora gli altri 100 euro e arrivare ai 200 netti nel triennio 2019- 2021, come risarcimento per vacanza contrattuale decennale.

Tutto questo si può raggiungere solo se c’è volontà politica, se soprattutto il Ministero dell’economia, su indicazione dei partiti e movimenti di maggioranza, del Governo e del Parlamento, sarà investito della risoluzione di questa questione, e se nei rapporti con l’Europa si difenderà la scelta di puntare sulla Scuola italiana e sul suo gap rispetto alla maggioranza dei Paesi europei.

Se, com’è giusto, si chiederanno sforamenti di deficit sugli investimenti pubblici, è il momento di considerare la scuola come il primo e più grande investimento che un Paese possa fare.

Cos’è la legge di stabilità se non questo? Frutto di scelte immediate per l’anno successivo e di una visione di Paese di respiro almeno triennale. Per questo bisogna anche guardare al sistema complessivo, alla riduzione del cuneo fiscale, all’abbassamento effettivo delle tasse, a tutto ciò che fa stipendio, reddito e potere d’acquisto. Proprio a causa della riduzione del potere d’acquisto degli stipendi, in questi ultimi dieci anni si è progressivamente verificato un drastico impoverimento del ceto medio, cui appartengono docenti e personale della Scuola, fenomeno questo che ha di certo concorso alla riduzione dei consumi interni. Il Paese rischia di non crescere più e non vede, come fanno invece tutti gli altri, la scuola, la ricerca e l’innovazione come motore indispensabile di questa crescita.

Le tabelle sugli stipendi degli altri Paesi le conosciamo bene, in tutte si considera il lordo stipendiale, non tenendo conto della maggiore imposizione fiscale in Italia, e tutti gli stipendi sono mediamente superiori a quelli italiani, alcuni anche con un divario notevole, come in Germania o nei Paesi nordici in cui, ad una media di maggiori stipendi nel pubblico e nel privato, si registrano nella scuola stipendi più del doppio di quelli italiani, frutto di economie forti.

A questo proposito vale la pena di interrogarsi anche sulle differenze interne tra scuola dell’infanzia e scuola secondaria, sia in ordine alle diverse ore di servizio da contratto sia di contro alla perequazione stipendiale ancora esistente fra i diversi ordini. Occorre prevedere tutele assicurative o fondi pensione con il supporto dello Stato, eliminando piccoli fondi pensione come gli attuali a gestione sindacale che immobilizzano capitali e incerte rivalutazioni; occorre stringere la forbice dei precedenti contratti, interrogarsi sull’incremento delle fasce stipendiali automatiche ad inizio e fine carriera nonché sul trattamento di fine rapporto e la successiva pensione, i quali si incrementano e garantiscono dignità dopo il servizio solo se si incrementano gli stessi stipendi.

Se quello che abbiamo scritto finora è ragionevole, l’unica cosa necessaria è crederci, operando perché questa svolta avvenga. Basta con le lamentele generiche, con docenti che si rassegnano e si arrendono, con sindacati troppo conciliativi che si accontentano delle tre cifre generiche e probabilmente intese al lordo da chi sbandiera di queste proposte e proclami.

I docenti e il personale Ata non possono fare altro che indicare questi obiettivi, lo hanno fatto in decine di migliaia nei social tramite raccolte firme.

Questo documento è un ulteriore contributo, cui daranno seguito i sindacati rappresentativi ed il governo quando si incontreranno, o si scontreranno, su questi temi.

Noi abbiamo il privilegio di parlare a tutti i protagonisti senza pregiudizio, cercando di interpretare da dentro quello che la Scuola pubblica chiede. Ciascuno, dove può, faccia la propria parte, senza indietreggiare su questi obiettivi, o giocare al ribasso, o rassegnarsi e accontentarsi, poiché ne va della considerazione sociale, del rispetto e della dignità della categoria: ormai è in gioco la garanzia di un tenore di vita adeguato al decoro della figura del docente e del personale della scuola di questo Paese.

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