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La scuola ricorda il professore precario Carmine Cerbera – Vittima del precariato di Stato

Il Professore precario Carmine Cerbera, docente campano di disegno e Storia dell’Arte, non aveva ricevuto la convocazione per il solito incarico annuale, dopo anni di sacrifici e di studi. Il 2 Novembre 2012, indotto al suicidio da chi ha governato il Paese negli ultimi anni, ha gettato le armi e ha abbandonato la lotta contro chi ha deciso di tagliare le ore della sua disciplina. Noi non dimentichiamo e lo ricordiamo attraverso le parole di Marcella Raiola del CPS Napoli: ” UNA PROMESSA AL PROFESSOR CARMINE C.. 4 novembre 2012 alle ore 18.48 L’abbiamo portata tutti, piegata in borsa; solo Giuseppe l’aveva indossata già, sotto la camicia blu scuro. Siamo titubanti; discutiamo ancora, in auto, ancora imbambolati e con gli occhi gonfi per le due notti quasi insonni trascorse a scacciare il lampo di quella maledetta lama con cui Carmine si è reciso la vita. Ho fatto confezionare un fascio di fiori bianchi. “Era un ragazzo? “, mi ha chiesto, con pietosa premura, il fioraio. No… Non era più un ragazzo; era un uomo, ma lo Stato pretendeva che continuasse a giocare allo studente, anche se aveva quasi 50 anni. Si sa: chi studia come Carmine ha fatto, conseguendo un’ulteriore laurea poco prima di essere assalito dal dèmone dello sconforto senza rimedio, va punito per il suo “snobismo”, va tenuto fuori dal giro di quel lavoro intellettuale che deve risultare penoso, patetico, vile, inutile, quel lavoro che non deve dare pane, che mette in testa ai giovani idee strane, Storia, Bellezza, Giustizia, Diritto, idee che devono sparire, che fanno perdere tempo, che non sono “produttive”… Ho chiesto fiori bianchi perché il bianco è un colore neutro, d’attesa, quasi un non-colore, suscettibile di accogliere qualunque altra tinta, ovvero pronto a stemperare e addolcire colori forti e scuri con la sua essenza… Un colore precario, insomma. La giornata è cupa e fredda. Va bene così. Il sole sarebbe stato oltremodo inopportuno. Non così, invece, la nostra maglietta, quella di battaglia, quella dei docenti precari in lotta, quella che con innocente orgoglio e con convinzione Giuseppe ha indossato fin da casa, da amico, da fratello, per sentirsi e stare spiritualmente più vicino a quell’uomo che non l’identità ma la precarietà ha reso “uno di noi”. Me ne convinco definitivamente pure io, poco prima dell’arrivo. Non vado al funerale come Marcella R., perché parenti e amici non mi conoscono come Marcella R. Vado al funerale come docente precaria; è così, è per quel che esprimo quando porto questa maglietta che assume un senso e un valore il mio “esserci”. Mentre Giuseppe parcheggia, a poca distanza dalla basilica del vescovo e santo Tammaro, metto anche io la mia maglietta, mentre vedo dal finestrino due compagne del CPS sul largo sagrato, in attesa, con le braccia conserte. Ci accolgono due professoresse amiche e colleghe di Carmine. Una piange a dirotto, ci abbraccia; l’altra ci chiede una maglietta e la indossa trionfalmente. Anche un altro collega, con cui familiarizza Giuseppe, ci chiede la maglia e avverte in giro che è arrivata la “delegazione dei precari della Scuola”. L’amica prof., Elena, sensibile e cara, è incredula e traumatizzata: “Una persona magnifica… Le figlie sono due splendori, educate, gentili come lui… Non dobbiamo dire che voleva “il lavoro”… Carmine non voleva “il lavoro”; Carmine voleva fare il Professore… il Professore! Voleva la Scuola… Ci siamo sentiti il giorno prima… Mi aveva chiesto, Che dici? Esce ‘sto salvaprecari? “… Elena non ce la fa ad andare oltre… Si sente in colpa per “non aver capito” l’intenzione di Carmine… “Perché non ho capito??? Perché???? “, continua a dire tra le lacrime. Giuseppe, Vito e Diego serrano le mascelle. Mi slaccio il giubbotto e mostro la maglietta. Il nipote di Carmine ci saluta uno ad uno, accoglie con soddisfazione le nostre biascicate condoglianze inutili. Capisco che abbiamo fatto bene; capisco che la nostra presenza di gruppo, lì, è ritenuta testimoniale, rilevante, che è un primo riscatto, una prima forma di elaborazione del lutto terribile, una prima reazione all’annichilamento. Arriva la bara. Entriamo. Il rito è frettoloso, impersonale; il prete è alquanto brutale e scontato; intona, con fare scocciato, canti disfonici, irritanti, privi di ogni solennità, e li interrompe d’improvviso, con esiti grotteschi. Dall’ala sinistra, dove discretamente ci siamo collocati, sentiamo gemiti di strazio intermittente. Guardiamo con un certo astio il prete “montiano”, che liquida una morte “particolare” come un cassiere a fine turno un cliente ritardatario. Sfiliamo davanti ai parenti; le figlie non ci sono. Una ha sedici anni; l’altra, una piccina di sei anni (“la sua vita”, mi dice una collega che ha riconosciuto il mio volto e si compiace delle nostre battaglie) ancora non sa che non vedrà più il suo papà. Crede sia in ospedale. Arriva il mio turno. Abbraccio la vedova, che mi accarezza la maglietta e mi dice: “Siete tutti qui… siete venuti!”. Le tengo la mano e restiamo qualche minuto guancia a guancia; mentre le lacrime scorrono a entrambe, dice con rabbioso dolore: “Perché non me lo ha detto? Perché non mi ha detto: qua si deve fare una rivoluzione? L’avrei fatta assieme a lui; l’avremmo fatta insieme! Perché ha fatto questo?”. Poi si riprende, si stacca, mi parla come una padrona di casa forte e assennata e mi dice: “Ora non abbiamo testa; ora siamo distrutte, io, la sorella… Non capiamo niente… Ma vi contatteremo, perché voi dovete lottare anche per lui; dovete mettere fine a questo…”. “Sì…”, le rispondo, “E’ un dovere. E’ una promessa. Faremo in modo che la civiltà del lavoro torni ad essere rispettata”. Mi guardano con gratitudine. Capisco per la prima volta appieno il significato del termine “responsabilità”. Prometto anche a me stessa. Mi ripeto che è un dovere. Ci sono dei giornalisti. Carmine non deve morire “in silenzio”. La famiglia e gli amici ci tengono. Ci tengono che si sappia che è morto di precarietà, di ansia, di umiliazione inflitta dallo stesso Stato che gli ha largito i titoli di studio. Vogliono che ci vedano, che vedano che ci sono altre persone che dicono di no, che hanno dei contrassegni specifici di lotta al male del paese, al malo lavoro che scivola via, che viene bruciato, che viene tagliato con lame incoscienti che ne attivano altre, diperatamente consapevoli; vogliono che si sappia che Carmine non era pazzo, depresso o debole, ma precario, unicamente e insopportabilmente precario. Esce la bara. Il corteo gemente s’allontana con dignità sotto l’acqua. Mentre qualcuno applaude e saluta Carmine, la moglie lancia compostamente un grido: “PROFESSORE! NON LO CHIAMATE CARMINE; DOVETE DIRE: PROFESSORE! “.

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