Dopo la sentenza ottenuta dalla FLC Cgil circa il mancato rinnovo dei contratti del pubblico impiego, potrebbero aprirsi scenari inaspettati come quello del risarcimento economico derivato dal mancato rinnovo contrattuale. Un compo bene assestato ad un governo che ha ridotto all’osso gli stipendi e la vita dei dipendenti pubblici, intanto i sindacati si preparano alla manifestazione del 24 ottobre.
Il governo e l’Aran sono stati condannati dal giudice del lavoro di Roma a «dare avvio senza ritardo e per quanto di loro competenza, al procedimento di contrattazione collettiva per i comparti della scuola, dell’università, della ricerca, dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica e delle relative aree dirigenziali». La sentenza è stata pronunciata dal giudice monocratico a seguito di un ricorso promosso dalla Flc- Cgil ed è stata pubblicata il 16 settembre scorso (7552/2015). Il provvedimento è stato emesso sulla base della sentenza della Corte costituzionale, n. 178 del 24 giugno scorso, con la quale è stato dichiarato incostituzionale il perdurare del blocco della contrattazione nel pubblico impiego dal 30 luglio scorso. E cioè dal giorno immediatamente successivo alla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del responso della Consulta.
La pronuncia del giudice apre scenari inediti sulla contrattazione collettiva nazionale del pubblico impiego. Perché costituisce un vero e proprio titolo esecutivo, con il quale i sindacati possono chiedere al giudice di disporre l’esecuzione forzata e, al tempo stesso, il risarcimento dei danni derivanti dal perdurare dell’inerzia del datore di lavoro pubblico. Un’arma in più a sostengo della protesta che vede tutte le sigle del settore (Flc-Cgil, Cisl scuola, Uil scuola, Snals-Conflsal e Gilda) in campo con una nuova stagione di mobilitazione che sfocerà con le manifestazioni regionali del prossimo 24 ottobre.
La strada risarcitoria non era perseguibile, invece, con la sentenza della Corte costituzionale. Che per sua natura, si limita a dichiarare l’incostituzionalità del perdurare del blocco della contrattazione, senza possibilità di sanzione o di azione esecutiva alcuna. Oltre tutto il giudice ordinario ha spiegato che l’esecuzione costringerebbe il governo e l’Aran non solo ad aprire le trattative sulla parte normativa. Ma anche e soprattutto su quella retributiva.
Ed è proprio sul valore degli adeguamenti retribuitivi, che dovrebbero fare seguito alla stipula del nuovo contratto, che i sindacati avrebbero gioco facile a fondare azioni risarcitorie su larga scala. In ciò determinando il proliferare dell’ennesimo contenzioso seriale con esiti potenzialmente disastrosi per la finanza pubblica. Non tanto per l’entità dei risarcimenti, quanto per l’ammontare delle spese legali che, con la riforma del codice di procedura civile, seguono la soccombenza «salvo gravi ed eccezionali motivi«. E che, per prassi, vengono determinate dal giudice intorno ai 1500 euro.
Per avere idea di quello che potrebbe succedere, basta tenere conto del fatto che il solo comparto scuola occupa circa un milione di lavoratori: tutti in attesa del rinnovo del contratto e tutti potenziali ricorrenti contro l’eventuale inerzia del governo. Va detto subito, però, che l’esecutività della sentenza del Tribunale di Roma può essere sospesa dalla Corte d’appello. Che può farlo in presenza di gravi e fondati motivi, anche in relazione alla possibilità di insolvenza di una delle parti. L’enormità della questione potrebbe indurre la Corte d’appello ad accordare la sospensione della sentenza di primo grado. Sempre che governo e Aran intendano procedere in appello, come quasi certamente avverrà. Resta il fatto, però, che per la prima volta nella storia della contrattazione collettiva del pubblico impiego, i sindacati hanno dovuto utilizzare l’azione giudiziale per costringere il datore di lavoro pubblico a riaprire le trattative per adeguare le retribuzioni al costo della vita. Giova ricordare, peraltro, che il contratto della scuola è bloccato dal 2009. E il legislatore ha disposto anche la cancellazione dell’utilità di 4 anni ai fini della progressione retributiva di anzianità: 2010, 2011, 2012 e 2013.
Il 2010 è stato recuperato dall’allora governo Berlusconi, con un provvedimento che ha rifinanziato la progressione di carriera utilizzando fondi derivanti dai tagli. Il 2011 e il 2012, invece, sono stati recuperati grazie ad accordi tra i sindacati Cisl, Uil, Snals e Gilda (la Cgil non li ha firmati) e il governo. In questo caso i soldi sono stati presi in buona parte dal fondo di istituto. Il 2013, infine, è tuttora inutile ai fini della progressione di anzianità. E ciò comporta, mediamente, una perdita di 1000 euro netti una tantum in busta paga.
A ciò va aggiunta la perdita salariale derivante dal mancato recupero dell’inflazione: – 0,7% nel 2009; – 1,6% nel 2010; -2,7% nel 2011; – 3% nel 2012; – 1,1 % nel 2013 e -0,2% nel 2014. In tutto la perdita salariale lorda, legata all’andamento dell’inflazione, ammonta al 9,3%, dal quale va detratta l’indennità di vacanza contrattuale che è bloccata dal 2012. Considerato che l’importo dell’indennità è pari al 50% del tasso di inflazione programmato, fino al 2012, dovrebbe essere stata recuperata la metà della perdita del potere di acquisto dei salari. E quindi, ad oggi, la perdita secca, per il lavoratori della scuola, ammonterebbe al 5,3%. Perdita alla quale va sommato l’effetto del ritardo di un anno della progressione di anzianità derivante dal mancato recupero del 2013. Ritardo che il governo avrebbe potuto annulare agevolmente, utilizzando parte degli stanziamenti disposti per la legge 107 ed includendo una norma ad hoc nel provvedimento. ma scelta politica è stata diversa.
ItaliaOggi