Vorrei soffermarmi sull’articolo 34 della Costituzione, oggi in piazza, a Roma, grazie all’appello “Costituzione, la via maestra” di Lorenza Carlassare, don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky. Può infatti capitare che un articolo della Costituzione resti intatto, ma cambi l’oggetto di cui parla: la scuola pubblica italiana. Recita l’art.34 che «la scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». E’ un principio strettamente legato all’art.3, specie quando afferma che «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Ora la notizia è questa: da anni in Italia la scuola di cui parla la nostra Costituzione non esiste più. Si potrebbero fare tanti esempi per confermare questa tesi. Ne faccio tre.
1) La gratuità . Sono sempre di più i genitori che pitturano le aule delle scuole. All’inizio mi faceva piacere, adesso mi mettono tristezza. Perché l’eccezione è diventata regola. Una cosa è la collaborazione dei genitori all’interno di un progetto educativo, un’altra dover cronicamente supplire alle mancanze di uno Stato. Una scuola primaria come quella italiana – che fino al 2008 era, per qualità, la prima in Europa e la quinta al mondo – non è stata considerata dai politici motivo di orgoglio, ma d’imbarazzo. Ed è stata progressivamente smantellata, trasfigurata, violentata, mentre si sono sempre più incentivate le scuole private. E tuttavia anche i genitori degli studenti delle scuole pubbliche ormai pagano tutto: corsi pomeridiani, attività sportive, giornalini d’istituto, recite teatrali, gite, viaggi d’istruzione, corsi di lingua straniera, carta igienica, materiale di cancelleria, toner, carta per le fotocopie, detersivi per mantenere puliti gli ambienti scolastici. Per ogni studente la cifra media sborsata può essere stimata intorno ai 100 euro l’anno. Totale: un miliardo di euro. Più altri tre o quattro miliardi circa che i genitori raccolgono alle feste di fine anno scolastico con lotterie, tombole, ristorazione e altro: i cosiddetti fondi neri della scuola di cui nessuno deve sapere e nessuno parla. Senza la voce di bilancio “contributo delle famiglie” e il lavoro volontario dei genitori degli studenti, la scuola pubblica, in Italia, da tempo non esisterebbe più.
2) Laicità . Parlare della laicità della scuola in Italia fa un po’ ridere, perciò parlerò della meritocrazia. Anche a scuola. Oggi dichiararsi contro il merito sembra quasi un’eresia. Specie in Italia, il paese delle raccomandazioni. Per insegnare religione cattolica nella scuola pubblica – dove a pagare i docenti è lo Stato – oggi è infatti decisivo non solo il parere del vescovo, ma anche quello del parroco. Non basta più il corso che organizzano le diocesi per abilitare i docenti all’insegnamento della religione cattolica. E’ richiesta anche una certificazione da parte del parroco di “buona condotta morale”. Una sorta di patente di buon cattolico. Una raccomandazione. Tanti italiani sono a favore del merito e della meritocrazia perché leggono in queste parole – sbagliando per ignoranza – il contrario di parole come favoritismo e clientelismo. In realtà merito e meritocrazia sono le idee più semplici e primitive per confluire, anche da chi proviene dalla cosiddetta sinistra, verso politiche aristocratiche, antidemocratiche, di destra. Orientate cioè verso individualismi spesso privi di senso di responsabilità e di solidarietà. La meritocrazia è puro veleno antidemocratico. Il contrario di merito e meritocrazia non sono favoritismo o le parole – merito, meritocrazia – sono oggi utilizzate per giustificare non solo dubbie differenze, ma anche palesi ingiustizie? Per esempio, tra chi ha un diritto e chi non lo ha?
3) L’inclusività . C’è una legge. Prevede che se in classe c’è uno studente disabile non si possano avere più di 20 alunni. Ma se la famiglia non la conosce e non minaccia il dirigente scolastico di rivolgersi ad avvocati, è disattesa. Per giudicare l’efficienza del sistema scolastico ci si affida alle crocette dei famigerati Test Invalsi, da cui gli studenti disabili sono esclusi. Per paura che rovinino la media nazionale, si finge che non esistano. E dire che prima del 2008 eravamo studiati in tutto il mondo per quello che facevano a scuola con questi ragazzi. Eravamo non solo un esempio di civiltà, ma di contenimento economico dei costi: perché è provato che investire nella loro inclusione scolastica è un vantaggio anche economico. Sono circa 204mila gli alunni e gli studenti disabili nella scuola italiana, il 4% del totale degli studenti. Più della metà, 81 mila, frequentano la scuola primaria, altri 63 mila studiano nelle scuole medie. Uno su cinque (il 19,8%) ha un handicap grave e ha bisogno di essere aiutato nel mangiare o per spostarsi e andare in bagno. Il 7,8% non riesce a fare nessuna di queste tre cose. Alunni che richiedono un’assistenza costante. E la scuola, sfigurata dai tagli al bilancio e al personale, non riesce più a darla. Con il taglio della spesa pubblica si è ridotto il numero delle ore di sostegno e dalle 22 settimanali previste se si arriva a 11 è già tanto. Quando non c’è il docente di sostegno, spesso il bambino è lasciato in solitudine nella classe. Seguito a fatica dagli insegnanti di “posto comune” che non hanno una preparazione specifica. Gli insegnanti di sostegno, con gli spezzoni di ore, sono costretti a dividersi in scuole diverse. Corrono da una parte all’altra. Le amministrazioni locali più virtuose fanno da tappabuchi allo Stato affidando i disabili a educatori di cooperative sociali senza preparazione specifica. A 6 euro all’ora. Promuovendo per primi una forma di aziendalizzazione della scuola al ribasso. Un errore. Così capita spesso che i genitori debbano riportare a casa il figlio prima della fine delle lezioni per non lasciarlo solo. Perché non solo non gli è garantito il diritto allo studio, ma neppure un’assistenza e una sicurezza adeguate. Alla protesta delle mamme degli alunni e degli studenti disabili non si è unita l’indignazione e la solidarietà di altre madri, famiglie, istituzioni.
Ognuno pensa ai propri figli e così i figli di tutti ci rimettono. Per questo propongo a Cgil, Arci e alle altre associazioni che promuovono la manifestazione, ma anche a tutte quelle con cui anni fa lanciammo proprio qui da Reggio la campagna per il diritto di cittadinanza “L’Italia sono anch’io”, una nuova campagna: per migliorare l’integrazione scolastica e l’inclusione degli studenti disabili nella nostra scuola. Perché non si può dire che un bambino disabile costa allo stato 25 volte di più di uno cosiddetto normale e cacciarlo dalla scuola pubblica cavandosela così. Né che non possa essere accolto in una scuola privata perché altrimenti salta il bilancio. Né che per accoglierlo i genitori degli altri bambini debbano fare una colletta. Ho in mente un titolo: Studenti disabili: un’eccellenza italiana.
il manifesto, 12/10/2013