Manca poco, poi anche la Pubblica amministrazione italiana dovrà prendere provvedimenti per gestire i primi «esuberi» da austherity. Entro fine mese, i ministeri e gli altri rami della Pa centrale dovranno infatti decidere la sorte delle circa 7.800 «eccedenze» (7.400 dipendenti, il resto dirigenti) che hanno individuato nei propri organici dopo il monitoraggio delle forze in campo imposto dalla spending review. Nelle bozze del decreto «Iva-lavoro» era spuntata una proroga, tolta però dal testo finale.
La geografia degli esuberi
Una fetta importante delle «eccedenze» (3.314) si concentra nell’Inps, che dopo la fusione con Inpdap (l’istituto previdenziale dei dipendenti pubblici) ed Enpals (spettacolo e sport) ha dovuto rivedere a fondo la propria organizzazione. Un’altra quota quasi equivalente di esuberi (3.236) è invece sparsa nei vari ministeri, e il resto del personale «in eccesso» è stato individuato negli enti pubblici non economici (Aci, Istat e così via) o negli enti di ricerca: una piccola parte aggiuntiva, che chiude il quadro, è invece nei ruoli dell’Enac, l’ente nazionale dell’aviazione civile.
Le misure
L’uscita forzata dagli uffici è solo l’extrema ratio prevista dal decreto del luglio 2012 sulla revisione di spesa, cioè il provvedimento del Governo Monti che ha dato il via all’intera procedura. Prima di tutto, le amministrazioni devono individuare i dipendenti che raggiungerebbero i requisiti previdenziali pre-riforma Fornero entro la fine dell’anno, perché per loro è stata prevista una corsia preferenziale verso il pensionamento. Per gli altri, invece, andranno messi in campo progetti di mobilità, per destinare alle amministrazioni che ne hanno bisogno il personale in «eccesso» negli uffici in cui si trova oggi. L’incrocio di domanda e offerta non è semplice, come mostra il fatto che la mobilità è prevista da molti anni nell’ordinamento del pubblico impiego ma non ha mai avuto successo: questa volta, però, lo spostamento non è volontario. L’alternativa prevista dalla legge è infatti rappresentata da una “mobilità” più dura, che riserva all’interessato l’80% dello stipendio tabellare (escluse quindi le voci aggiuntive, con un taglio effettivo che a seconda dei casi può arrivare anche al 50% dello stipendio) per due anni, entro i quali l’interessato dovrebbe trovare un posto di lavoro in un’altra amministrazione: trascorsi i due anni, la legge prevede nei fatti il licenziamento.
La gestione
Proprio la delicatezza del tema, insieme all’esigenza di trovare un accordo con i sindacati per gestire tutte le eccedenze nel modo più “indolore” possibile, avevano spinto il Governo a ipotizzare un rinvio del termine di fine luglio, ma l’idea non è arrivata al traguardo. Anche per questa ragione, il ministro della Funzione pubblica Gianpiero D’Alia ha deciso di accelerare: «Stiamo lavorando con i sindacati per trovare criteri condivisi – ha spiegato al Messaggero – ma poi bisogna decidere».
Sul territorio
E fuori da Inps e ministeri? Anche le pubbliche amministrazioni territoriali, Regioni, Province e Comuni, hanno nei propri organici la loro quota di «esuberi». O, meglio, l’avrebbero, se i parametri fissati 12 mesi fa per individuare le «eccedenze» fossero stati applicati. Per gli enti locali, per esempio, la legge riserva le stesse misure previste per gli statali «di troppo» quando il Comune o la Provincia supera del 40% il rapporto medio fra dipendenti e popolazione registrato nella stessa fascia demografica. Peccato, però, che nessuno si sia messo a calcolare le medie delle diverse classi dimensionali di enti, e che di conseguenza la norma giaccia in «Gazzetta Ufficiale» senza alcun seguito.
Riorganizzazione ferma
E dire che la Pa territoriale ha forse bisogno di una revisione ancor più radicale di quella imposta a ministeri e dintorni. Le Province, per esempio, vivono da mesi in un limbo che le sta privando progressivamente di organi politici e risorse, trasformandole in scheletri vuoti senza la possibilità di programmare alcunché. Il limbo potrebbe finire martedì, quando la Corte costituzionale è chiamata a valutare la legittimità della “riforma” avviata dal Governo Monti e poi interrotta, ma anche se la Consulta ridesse vita a tutte le Province non cancellerebbe il fatto che tra gli enti il livello di personale è molto eterogeneo, e meriterebbe una rivisitazione.
Ancor peggio va nei 5.700 Comuni italiani che non arrivano fino a 5mila abitanti, e che dovrebbero in questi mesi mettere insieme le proprie funzioni in Unioni a cui affidare la gestione dei servizi fondamentali. Nei primi mesi dell’anno i sindaci avrebbero dovuto avviare il processo con alcune funzioni, per arrivare entro la fine dell’anno alla condivisione totale in Unioni di almeno 10mila abitanti (con soglie un po’ più basse in montagna): ma senza una riorganizzazione del personale, i risparmi legati alla gestione associata rischiano di rimanere quasi tutti sulla carta.
Sole24Ore