A scrivere della questione è il quotidiano Il Messaggero con un articolo a firme della giornalista Alessia Camplone. La scuola, a giudicare dalle percentuale di bocciati, sarebbe prigioniera al pari dei detenuti fallendo così l’occasione di offrire un vero e proprio riscatto sociale.
Di seguito abbiamo riportato l’intero articolo.
IL CASO
ROMA In carcere è prigioniera anche la scuola. Le lunghe giornate in cella che diventano l’occasione per un riscatto con lo studio non sono ancora una realtà. Gli studenti dietro le sbarre che riescono a diplomarsi sono un fenomeno marginale, con piccoli numeri costanti nel tempo. Nel 2012 solo dieci detenuti in tutta Italia si sono laureati, e in 13 anni sono stati appena cento. Ai corsi di formazione scolastica in carcere più della metà degli iscritti è stata bocciata.
LE CIFRE
È il ministero della Giustizia a fornire la fotografia di come l’istruzione diventa un’alternativa inadeguata per un recupero sociale. La funzione rieducativa della pena in queste cifre fallisce. Sono pochi quelli che decidono di dedicarsi agli studi universitari: il numero complessivo dei detenuti in Italia è 62.756, tra questi gli iscritti a un corso universitario sono 316. Tutti maschi, quasi tutti italiani: gli stranieri sono appena 51, meno di uno su sei, nonostante nel totale della popolazione carceraria rappresentino circa un terzo. Numeri alti invece tra chi frequenta i corsi che vanno dall’alfabetizzazione alla scuola secondaria: 15.900 iscritti, divisi in 953 corsi diversi.
Ma quando si arriva al dunque i detenuti promossi sono una minoranza, appena il 42,4%. In questo caso la maggioranza degli studenti è originaria di altri Paesi: 8.959, dei quali 3.450 hanno superato l’anno di scuola. Le comunità più rappresentate in prigione sono quella marocchina, la rumena, l’albanese, quella tunisina.
IL REINSERIMENTO
Il drammatico affollamento – più volte denunciato anche dal presidente Giorgio Napolitano – è il primo ostacolo: come si può studiare se in prigione se per ogni cento posti devono viverci 135 persone? Eppure secondo il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, la chance che offre lo studio è preziosa: «L’istruzione nei penitenziari contribuisce ad abbattere la recidiva fino all’80% e aiuta il reinserimento». Scuola e lavoro. «Chi impara un mestiere durante la detenzione – sottolinea ancora Toccafondi – raramente torna a delinquere una volta tornato libero».
L’università, invece, è la scelta di chi non solo ha naturalmente già un diploma di scuola secondaria, ma che ha anche un sostegno familiare, o una posizione sociale più elevata della maggioranza dei detenuti. I corsi di laurea preferiti sono quelli umanistici: lettere, le facoltà politico-sociali, giurisprudenza.
LE INIZIATIVE
Le iniziative però per incoraggiare lo studio, soprattutto universitario, sono sporadiche. A Parma l’Università ha offerto dieci borse di studio da mille euro ciascuno, e per finanziare questa cifra non troppo impegnativa si sono mobilitati cinque enti: Provincia, Comune, Opera Pia SS. Trinità, Fondazione Mario Tommasini e Caritas diocesana del capoluogo emiliano. «Questa iniziativa offre una cornice istituzionale a un rapporto individuale che esiste tra studente detenuto e università», fa notare Gino Ferretti, rettore dell’ateneo di Parma.
Nella provincia emiliana sono una ventina gli studenti universitari. L’università di Padova ha invece promosso un progetto di tutorato con un protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia: il penitenziario offre spazi e strutture, l’ateneo orientamento, didattica, anche libri gratuiti, e rinuncia alle tasse d’iscrizione. Mentre per imparare un mestiere, quello gettonatissimo di addetto alla cucina che piace molto anche ai ragazzi liberi, è di questi giorni l’accordo tra il carcere di San Nicola di Avezzano e il comune abruzzese. Coinvolge sette detenuti con la collaborazione dell’istituto professionale alberghiero dell’Aquila. Si può fare, se si vuole.
Alessia Camplone