Pier Luigi Celli ha tracciato al settimanale l’Espresso l’identikit del docente idealeì, deve essere: autorevole, attento, e responsabile. Per facilitare il suo lavoro – aggiungiamo noi – occorre che gli venga restituita la dignità professionale per l’importante ruolo sociale ed educativo che riveste ed economica.
Di seguito l’articolo pubblicato da L’Espresso.
E così parole come “professori”, “scuola”, “università” fanno di nuovo capolino nel discorso pubblico che le aveva dimenticate da circa vent’anni. Ritornano nell’agenda politica proprio mentre in tutto il Paese, taglio dopo taglio, abbandono dopo abbandono, l’intero edificio scolastico cade letteralmente e metaforicamente a pezzi. I contraccolpi del ventennio ignorante si sentono ovunque, e anche uno come Pier Luigi Celli sembra, per la prima volta dopo tanti anni, troppo deluso per aver voglia di raccontarci la sua ricetta. Eppure lui un’idea di come devono essere gli insegnanti, di cosa deve fare e dare la scuola, di come deve organizzarsi l’università ce l’ha da tempo. E da tempo sostiene che la formazione e l’apprendimento si giocano attorno al professore; un maestro, capace di accompagnare un ragazzo a riconoscere il suo talento e a puntarci sul serio. Poi, uno sguardo là fuori e le parole scritte nero su bianco nel suo ultimo libro, “Alma matrigna. L’università del disincanto” (Imprimatur, Bologna 2013), un «addio amaro», frutto della sfiducia e della disillusione.
Dopo otto anni di direzione generale della Luiss, Pier Luigi Celli fatica a pensare che l’intero sistema italiano dell’istruzione possa riformarsi. Eppure, lui che a tenere le redini di una grande università privata ci era arrivato dopo un cursus honorum nelle più grandi aziende aziende italiane, dalla Rai all’Enel, dopo anni spesi a occuparsi di formazione di altissimo livello, non è uno capace di gettare la spugna. E se gli chiedi quattro, cinque cose da fare subito per riprendere quota, non si tira indietro.
La scuola e l’istruzione sembrano tornati al centro del dibattito politico. Gli insegnanti sono il ponte per riportare nelle scuole il civismo e, come lei scrive nel suo libro, “ridare vigore, coraggio e speranza”?
«Io credo di si. Se non si limitano a far lezione. Ma dimostrano che le cose che insegnano possono aiutare il Paese ad uscire fuori dalla sua crisi, che servono a fare qualcosa di concreto, a diventare quello che essi vogliono diventare. Allora i professori sono davvero dei “maestri”. E il maestro è uno che si fa carico, che si prende cura, che si preoccupa delle conseguenze che hanno le cose che insegna rispetto alle cose che si possono fare».
Il maestro è al centro della sua idea di insegnamento. Può farne un identikit?
«Essere maestro significa assumersi delle responsabilità ulteriori, non semplicemente raccontare dei saperi, ma far capire che quei racconti sono storie in cui tu sei protagonista, in cui tu entri. Io ho sempre presente i miei maestri che quando ero in difficoltà sono stai capaci di prendermi per mano e dirmi: “ragazzo, qui ci sono delle cose che devi leggere, che devi studiare, e queste sono le cose che devi andare a vedere. Poi torni e me le racconti; così potremo vedere come andare avanti”. Erano persone che mi dedicavano il loro tempo».
Lei pensa che la società, la famiglia, riconoscano questo ruolo ai prof?
«Se così fosse certamente i docenti verrebbero valorizzati di più, e forse pagati un po’ meglio. I riconoscimenti sociali sono scarsi, anche perché una figura come questa è quasi in controtendenza rispetto alla cultura emergente che benedice coloro che si sono fatti da soli. L’idea è: i migliori riescano nella vita indipendentemente dalle condizioni di contorno. Ma abbiamo ben visto che una società di questo tipo ci ha portati ad un livello di degrado tale per cui oggi avremmo davvero bisogno di recuperare i valori civili della solidarietà. È nel quadro di questi valori – solidarietà, cooperazione, comunità – che il maestro diventa una figura centrale, che riesce a restituire ai giovani l’idea che ci sono cose che valgono più ancora dei risultati, dei vantaggi che possono dare».
Siamo sicuri che le famiglie siano pronte a riconoscere una figura esterna che guidi le scelte dei loro figli? Vediamo ogni giorno genitori in guerra con scuole e professori a volte colpevoli solo di voler mettere le briglie a un giovane; di dare un brutto voto.
«Oggi le famiglie sono talmente dissestate, per tante ragioni… Sembra che il più delle volte si pongano il problema della formazione dei figli per attribuire ad altri responsabilità che esse molto spesso non sono riuscite a esercitare».
Il suo nuovo “Alma matrigna” è un j’ accuse molto forte: lei ritiene che la scuola e l’università sono ancora capaci di trasmettere ai giovani i valori civili?
«Sono alcuni dei canali superstiti, perché molti altri di tipo comunitario sono venuti a mancare. L’università, poi, ha come unico vero scopo la promozione della classe accademica. In molti atenei i ragazzi sono un di cui. Non se ne può fare a meno, ma se si potesse sarebbero tutti contenti. Perché il vero obiettivo dei professori è la riproduzione della loro specie per via endogamica. I ragazzi sono lì, gli si fa lezione… sono un fastidio. Ma è sbagliato limitarsi a trasmettere delle conoscenze destinate comunque a diventare obsolete perché cambieranno molto durante la vita professionale o sociale del ragazzo, senza fargli sperimentare concretamente e da subito come queste conoscenze possono operare nel mondo del lavoro».
Cosa rende un giovane una risorsa appetibile per un’azienda? Essere bravo a scuola?
«No, un giovane diventa una risorsa appetibile se sa stare insieme agli altri, sa lavorare in gruppo, sa affrontare i problemi, sa essere equilibrato nelle soluzioni che dà. E soprattutto se è molto motivato e appassionato per il lavoro che gli viene proposto».
E la conoscenza della materia?
«Le conoscenze tecniche sono certamente uno strumento di base, di cui uno deve possedere gli elementi. Ma non sono sufficienti».
Quindi dare così tanta importanza, come oggi si dà, ai test come il Pisa Invalsi è sbagliato?
«No, questi test sono uno strumento che dice qualcosa, ma non dice tutto. Il mondo cambia rapidamente, e quindi anche le conoscenze di cui tu hai bisogno cambiano rapidamente, devono essere integrate e adattate. Il mondo del lavoro ha bisogno di teste flessibili, di teste ben fatte. Lavorare sulle teste è la cosa più difficile, non si può fare semplicemente passando delle conoscenze».
Esiste un un canale di trasmissione tra la scuola media superiore e l’università che permetta a uno studente di scegliere il percorso giusto per lui?
«Francamente no. Bisognerebbe che i professori universitari andassero nelle scuole, e insieme agli insegnanti, raccontassero dove sta andando il mondo. Quali sono le cose che hanno più valore e quelle che ne hanno meno; e in che modo si può esprimere al meglio la predisposizione dello studente. Io ho parlato e parlo di vocazione: è importante che i docenti comprendano qual è la vocazione del ragazzo e cerchino di capire in quale ambito universitario egli possa esprimersi al meglio. Insomma, non è che tutti possono fare gli ingegneri perché ingegneria è quella che dà maggiore sbocco nel mondo del lavoro. A chi ha la passione per le scienze umane, ad esempio, va spiegato cosa farne, perché è vero che il mondo del lavoro ha alcune tendenze prioritarie, ma è anche vero che ci sono settori che possono essere esplorati e possono dar valore a molti curricula. Ma per arrivare a comprendere quali strade sono percorribili e come percorrerle, quali corsi di studio scegliere e in che prospettiva è necessario condurre i ragazzi quasi per mano. Invece, oggi, le università mandano docenti nelle scuole medie superiori per farsi pubblicità, per promuovere filoni di moda. Il che ha un senso nella logica di sviluppo dell’ateneo stesso, non del futuro dei giovani».
Dopo otto anni alla direzione di un grande ateneo, le resta molta amarezza.
«Sì. Ma penso che l’università potrebbe riacquistare una funzione utile per il Paese. Bisogna che i professori facciano meno gli uomini di cattedra, e più gli uomini di cortile. Che condividano con gli studenti la vita d’ateneo. Quello è il loro mestiere. Sono pagati per farlo, per fare ricerca e insegnamento. Non tutto il resto: i marchingegni, i concorsi. Il potere. Bisogna mettere gli studenti al centro del sistema. Purtroppo, invece, l’università è potere, non è servizio».
E quanto questo si riflette sul valore che il Paese dà all’insegnamento e alla cultura?
«L’insegnamento e la cultura diventano dei valori nella misura in cui quando tu li spendi sul mercato fanno la differenza. E perché questo accada bisogna rimettere lo studente al centro. Perché l’insegnamento non è semplicemente trasmissione di conoscenza. È trasmissione di competenza, di valori, di passione».