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La scuola al tempo del Coronavirus

Dallo scorso 5 marzo le scuole sono state definitivamente chiuse al fine di evitare tra gli alunni il contagio da Coronavirus, giunto armai nella sua fase più virulenta.
Subito dopo c’è stato il lockdown, che ha confinato tutti nelle proprie abitazioni. Allora, dalla sera alla mattina, si è fatto ricorso in modo generalizzato, per la prima volta nella storia dell’istruzione, alla didattica a distanza perché la scuola, giustamente, doveva continuare ed i ragazzi non potevano essere abbandonati a se stessi.
Abbiamo così assistito, allo svolgersi di un anno scolastico diviso in due parti: una prima parte in presenza fisica tra le aule scolastiche e una seconda parte in presenza virtuale, dietro un monitor, proprio della didattica a distanza (DAD).
Si sono realizzate così due esperienze di lavoro diverse per ottenere gli stessi fini. Quella che riguardava la prima parte dell’anno scolastico era la scuola così come l’abbiamo sempre vissuta. La seconda parte era tutta da inventarsi  e tutta da scoprire.
Oggi, ad anno scolastico concluso, possiamo tirare le somme, non prima di aver visto, letto e ascoltato il parere di tutti: addetti ai lavori e opinione pubblica.
La conclusione, pressoché unanime, è che la DAD non è e non può essere la scuola, è un’emergenza. E l’emergenza deve avere la stessa vita della causa che la impone.
La scuola, fin dal 2000 a.C. nell’Antico Egitto, è fatta di contatto fisico, di socializzazione, di interazione spontanea e tempestiva, di empatia, di processi metacognitivi in itinere, che solo il rapporto continuo con l’intero gruppo classe può permettere. La DAD è la negazione di tutto questo.
Per non parlare delle problematiche di natura socio-psico-fisico scaturenti da una lunga interazione con una piattaforma virtuale, dietro un monitor. Ma questa è un’altra storia.
Quello che più ci interessa focalizzare è quali sono stati i risultati raggiunti con l’utilizzo della didattica a distanza.
Orbene, la DAD, dati i tempi strettissimi a disposizione delle parti chiamate ad utilizzarla, ha evidenziato con maggiore nitidezza quello che già si sospettava ovvero l’eterogeneità,  in termini di competenze informatiche, da parte di tanti docenti e alunni. Partendo dal corredo tecnologico a disposizione dei singoli, che è stato il più diversificato possibile, fino ad arrivare all’assenza dello stesso. Dalla mancata costanza da parte degli alunni nel seguire le lezioni, fino ad arrivare al limite dell’assenteismo in rete.
Se c’è un merito che ha avuto questa esperienza è stato quello di mettere la scuola, una volta tanto, al centro dell’attenzione di questo paese.
La scuola è risultata così centrale nelle politiche socio-economiche del governo (per quelle culturali c’è sempre tempo), tanto da coinvolgere nel dibattito anche le famiglie, gli alunni e gli insegnanti. Un tale coinvolgimento totale delle varie componenti sociali non si era mai visto, nemmeno ai tempi della Buona Scuola renziana.
– Il governo ha dovuto prendere coscienza, semmai non lo sapesse, della vetustà del suo sistema scolastico in termini di strutture, risorse umane e tecnologiche. Sempre a fare i conti con la spesa pubblica, con i soldi da risparmiare, mortificando sempre l’istruzione.  Eppure, a sentire i vari governi che si sono succeduti, tutti, indistintamente, hanno fatto leva su promesse di un potenziamento delle risorse economiche da dare alla scuola, non disgiunte da una maggiore valorizzazione professionale e retributiva degli insegnanti. Promesse sempre smentite dai fatti.
Le famiglie, almeno una buona parte di esse, perché improvvisamente si sono ritrovate con i figli a casa, senza badanti a disposizione (per quelle con i figli più piccoli), o a fare i compiti al posto dei figli (per quelle con i figli più grandi).
Tant’è che anche quelle che prima erano favorevoli all’uso compulsivo delle tecnologie informatiche, sono scese in piazza per reclamare il ritorno dei propri figli tra i banchi. Si comprende bene il loro problema, ma non si può contestare un provvedimento governativo di natura eccezionale, che di fronte alla salute dei ragazzi, non ha altre alternative se non quella di chiudere le scuole. E’ stata un’emergenza e come tale andava e va considerata. L’unica nostra speranza è che essa non si ripresenti  il prossimo autunno o almeno che il tutto possa essere gestito meglio sulla scorta dell’esperienza appena vissuta.  Adesso abbiamo più tempo per riorganizzarci, e se saremo di nuovo costretti alle videochiamate, tutti dobbiamo essere messi nelle condizioni di trarre il meglio da un tipo di didattica certamente non ottimale.
Gli alunni, che hanno dimostrato, qualora ce ne fosse ulteriore bisogno, che l’interesse per lo studio non è solo in funzione del metodo utilizzato  e/o dei mezzi ha disposizione ma soprattutto dell’indole personale di ciascuno. Ma c’è di più, per anni è stato detto che i giovani sanno usare il pc meglio di tanti loro insegnanti. Una verità  che è venuta fuori da questa triste esperienza è che la maggior parte di essi ha trovato molta difficoltà ad  attivare la didattica a distanza . Insomma questi nativi digitali dell’informatica sanno usare solo Whatsapp o  altri Social.
Infatti quegli alunni che non partecipavano alla vita scolastica in presenza hanno continuato a non farlo indisturbati perché invisibili. Forse qualcuno effettivamente non aveva le tecnologie o la connessione di rete a sufficienza, ma sono stati pochi casi. La realtà è che quelli che già non facevano nulla in presenza fisica, della virtualità evanescente  se ne sono fatti un alibi più credibile: l’eccezione non pregiudica la regola.
–  I docenti, che ancora una volta, al cospetto della didattica a distanza, si sono divisi tra progressisti, estemporanei, vocati e riluttanti. Ciò nonostante tutti, contrariamente a quanto insinuato da una parte dell’opinione pubblica, hanno svolto un lavoro enorme. Il loro impegno è stato notevole perché si sono dovuti  (re)inventare un nuovo modo di essere e di fare scuola. Dalla sera alla mattina hanno cambiato il loro metodo di lavoro. Metodo che tradotto in ore lavorative è risultato superiore a quello di quando andavano fisicamente a scuola. Gli insegnanti non stavano a casa in panciolle, hanno lavorato come prima e più di prima, sicuramente quelli che insegnavano dalla scuola secondaria di I grado in su.
Ho sentito dire da una docente : “Ieri sera ho finito alle 22. E si, perché i miei alunni sono 75, divisi in 3 classi, quindi comincio la mattina e finisco alle 22 e oltre, come ieri sera. Ovviamente non sono tutte ore di filato, devo pur mangiare, ma diciamo che complessivamente almeno 10 ore al giorno le faccio.”
Senza dimenticare che anche gli insegnanti sono genitori ed hanno i figli da seguire.
Molti insegnanti hanno avuto anche la “felice” idea di creare dei gruppi Whatsapp con i propri alunni per le loro esigenze più immediate e per farli ulteriormente sentire classe comune. E’ successo che diversi alunni non hanno usato proprio una piattaforma tipo Classroom ma si sono limitati ad utilizzare Whatsapp subissandoli di richieste, anche di domenica. Agli insegnanti arrivava di tutto: e-mail, immagini e pdf che non si potevano correggere, richieste di aiuto reiterate decine di volte e sempre per lo stesso problema. Allo stesso alunno hanno dovuto spiegare 3, 5, e pure 10 volte, come si accedeva alla piattaforma o come si inviava un documento.
Non tutti i ragazzi, almeno non la maggioranza,  hanno dato seguito alle consegne date, tanti ci hanno marciato sopra e qualcuno di essi è sembrato quasi che si divertisse a tirare la corda.
Frutto delle politiche scolastiche dei vari governi, che hanno completamente deresponsabilizzato i ragazzi. Quando qualcuno dice che i ragazzi di oggi sono nativi digitali dovrebbe capire che lo sono solo anagraficamente.

Dal punto di vista della valutazione degli alunni cosa è cambiato adesso? Nulla! Nel senso che le scuole che promuovevano tutti prima (caso mai per formare le classi) adesso hanno potuto farlo in assoluta tranquillità di coscienza. Le scuole, che pure si azzardavano a far ripetere l’anno a qualcuno, adesso non ci hanno provato proprio, perché lo chiedeva il “furor di popolo”, il Miur e il Sacramentum Caritatis. Non stigmatizzo, almeno per quest’anno, tale sanatoria. Ma per il futuro questa triste esperienza dovrebbe almeno farci capire che l’Italia, col suo lasciar perdere, ha creato una società che non è in grado nemmeno di farsi le mascherine, i ventilatori polmonari, i ponti che reggono, ecc.. Perché la globalizzazione, unita all’ignoranza crescente dei nativi digitali nostrani, ha completamente distrutto l’industria italiana e il conseguente progresso scientifico e tecnologico di questo paese.
Angelo Pepe

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