Qualche volta viene da pensare che l’umanità contemporanea (in primo luogo nel nostro Occidente) sia minacciata dall’insinuarsi di un universale cretinismo, che si insinua anche dentro le più sofisticate competenze, entro le più fulminee intelligenze, entro le più dinamiche abilità: è quello che scaturisce dall’ossessione della classificazione. Cioè, dall’invadente pratica delle valutazioni accompagnate da conseguenti classifiche. Classifiche che vengono elaborate attraverso strumenti di ben rodata tecnologia, impiego di professionalità di alto livello: tecnologia e professionalità divalidissime nel loro campo specifico, ma convogliate e deformate nel loro tendere a costruire classifiche discriminanti, che giungono a toccare i territori più diversi della vita, computati e misurati numericamente anche quando la loro sostanza sembrerebbe escludere ogni risoluzione in calcoli e ogni comparazione numerica. Che c’è di più impalpabile della felicità? Di quella cosa indefinibile tanto cercata e mai davvero raggiunta, scoperta abbastanza tardi dalla storia umana e sempre sfuggita? (del resto chi ha preteso di imporla sull’insieme sociale ha in genere prodotto infelicità e disastri). Eppure anche della felicità si fa una classifica, al più alto livello «mondiale»: abili e competentissimi tecnici che lavorano per le Nazioni Unite, nel quadro dell’Ocse, ci hanno offerto nei giorni scorsi una formidabile classifica mondiale della felicità. Si tratta del World Happiness Report, che mette in fila, come nella classifica generale di una corsa a tappe, tutti i Paesi del mondo, con in testa la Danimarca e in coda il Togo. Su questo grande schermo del mondo globalizzato la vita collettiva e quella individuale, gioie e dolori, occasioni e perdite, ricchezze e miserie si sistemano così entro parametri statistici; si danno medaglie e riprovazioni oltre ogni opacità, contraddizione, problematicità dell’esistere, si misura senza fine l’incommensurabile. È vero d’altra parte che c’è un filo comune che collega tutte le forme di valutazione e classificazione che si sovrappongono ad ogni momento della vita pubblica, all’orizzonte sociale, all’economia, e che spesso sembrano dare esiti equiparabili a quelli delle competizioni sportive. Non si tratta solo di classifiche della felicità, su cui può essere abbastanza facile ironizzare: dubbi analoghi si possono avere, proprio per restare nel quadro dell’Ocse, sui parametri che vengono usati nella ben nota classifica del Pisa (che non ha nulla a che fare con la città della torre pendente, ma è acronimo di Programme for International Student Assessment), con quei poco credibili spostamenti e variazioni di cui si è parlato recentemente (e rinvio ai rilievi fatti su questo giornale da Benedetto Vertecchi lo scorso 9 dicembre). Dovrebbe essere chiaro, tra l’altro, che queste e simili valutazioni, proprio perché basate su dei test, che per loro natura stimolano tipi di risposte predeterminate, non possono in nessun modo dar conto della specificità delle situazioni a cui si riferiscono. Credo però che sia giunto il momento di sottoporre ad una critica più radicale l’attuale dominio di forme di valutazione che non sono in grado di recepire la concretezza dell’esperienza didattica, lo scambio vitale che essa comporta, la complessità dell’orizzonte culturale entro cui si dispone. Qualcosa di analogo si può dire dei test Invalsi e, per l’università, delle cervellotiche classifiche variamente scaturite dall’apposita agenzia di valutazione, l’Anvur. I parametri volta per volta messi in campo appaiono assolutamente incongrui con la sostanza delle discipline a cui vengono riferiti, ne fissano la specificità culturale e scientifica in ragione di modelli e schemi precostituiti, penalizzano proprio l’originalità e la creatività. Si tende così verso l’appiattimento di ogni forma culturale e scientifica entro il già dato, entro segni economico-statistici che negano ogni autentica dimensione vitale e relazionale. Non sorprende il fatto che molti dei sostenitori di questi schemi di valutazione ne traggano spunto per attaccare la scuola e l’università pubblica, perorando indefinite forme di privatizzazione (così Andrea Ichino, che, commentando l’indagine Pisa sul Corrieredellasera del 10 ottobre scorso, ha affermato che lo stato dovrebbe sì continuare a finanziare le scuole pubbliche, ma lasciando «ad altri il compito di gestirne le risorse umane e finanziarie»). Se esistesse ancora un pensiero critico, sarebbe fin troppo facile riconoscere la stretta continuità tra le valutazioni e classificazioni che toccano ambiti di per sé non quantificabili, e quelle che agiscono sul piano economico e finanziario, nel quadro di un liberismo antistatale che si pretende come risolutiva via d’uscita dalla crisi di cui è invece l’origine. Siamo prigionieri di sistemi di potere, di strategie economiche e culturali che si basano su un’assolutizzazione del modello del marketing, su una proiezione artificiosa del calcolo statistico su tutta l’esistenza, mentre l’onnipresenza dei sondaggi allontana sempre più dall’orizzonte pubblico ogni dato di pensiero, di riflessione, di problematicità: su questo terreno la politica diventa sempre più asfittica e dal suo seno fa scaturire un’antipolitica sempre più rabbiosa e distruttiva. Altro che classifiche e valutazioni: avremmo davvero bisogno di una «Critica della ragione valutante» (o classificante). Ma filosofia e critica sembrano prese da altre faccende.
Scuola, siamo prigionieri delle classifiche di Giulio Ferroni
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