Gentile Redazione,
scrivo per condividere un’amara riflessione sullo stato attuale della scuola pubblica italiana, o meglio — e mi si conceda l’amara ironia — della sQuola, come ormai sarebbe più opportuno chiamarla.
Dal punto di vista economico, oggi non conviene in alcun modo impegnarsi oltre il minimo contrattuale. Ogni attività extra viene trattata fiscalmente come un lusso da colpevolizzare, tassata fino all’ultimo centesimo e penalizzata nei conguagli. Chi lavora di più, paradossalmente, paga di più. Al contrario, chi si limita a firmare progetti senza dare alcun contributo reale spesso finisce per trarne un guadagno, restando nell’ombra, ma beneficiando dei sacrifici altrui.
Siamo davanti a una scuola che ha perso la sua vocazione educativa per trasformarsi in una volgare impresa speculativa: progettifici e diplomifici, meri strumenti di produzione burocratica. Ringraziamo per questo la cosiddetta autonomia scolastica e la legge 107 del 2015, che hanno reso le scuole aziende a tutti gli effetti e i dirigenti scolastici veri e propri datori di “lavoro”, con poteri e logiche manageriali spesso lontane dall’interesse degli studenti e del personale docente.
Ma la responsabilità più grande, a mio avviso, è dell’intera categoria degli insegnanti, troppo spesso inerte, silenziosa, incapace di un’azione collettiva efficace. Una colpa d’omissione che pesa tanto quanto — se non più — delle scelte politiche.
Con amarezza,
Piergiorgio T.
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