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Dalla Scuola dell’Autonomia alla proposta di Autonomia differenziata: viaggio nella storia della Scuola italiana degli ultimi decenni

Che cosa è l’autonomia differenziata e cosa significa e significherebbe per il sistema di istruzione pubblica in Italia? Probabilmente le medesime premesse teoriche di partenza valgono anche per il sistema sociale e per quel che resta di quello sanitario, passando dall’impianto generale sotteso al delicato e complesso sistema dei diritti essenziali garantiti al cittadino in uno Stato di diritto come il nostro, caratterizzato da una Costituzione rigida.

E le premesse che mi sento senza indugio di criticare aspramente sono quelle relative alla applicazione a ogni livello di concetti desunti dalla risposta dello Stato alla domanda del mercato, in primis a livello di linguaggio utilizzato e fruito, che si fa strumento di manipolazione di masse, per ciò stesso prive di coscienza, da indottrinare. La parole sono importanti! – gridava Nanni Moretti spazientito in “Palombella rossa”.

Dove e perché ha inizio questo fenomeno culminante nel tornado che sentiamo avvicinare in questi giorni di follia collettiva? Tutto comincia, verosimilmente, o peggio si compie, con quella promessa di felicità estrema propinataci un paio di decenni fa sotto il nome altisonante di “Scuola dell’Autonomia”, che qualcuno ha trasfigurato strumentalmente ma in un certo qual senso correttamente in “Scuola della Libertà”, come se prima nelle nostre scuole ci fossero le sbarre, come se le nostre scuole fossero state delle prigioni dell’oscurantismo, senza quella necessaria “flessibilità” salvifica.

Del resto, se si intende la “libertà” come liberazione dai legacci del nostro sistema costituzionale, che insiste sul concetto di “uguaglianza” come suo principio cardine, i conti sono presto fatti. Le parole sono importanti. Flessibilità in luogo della sussidiarietà, flessibilità come parola chiave e nel contempo pietra d’inciampo, che anche in questo caso evoca adeguamento a leggi “altre”, che permeano il linguaggio e che rispondono ad esigenze del “mercato”.

Cioè, non si risponde più ai bisogni del cittadino con una declinazione verticale o orizzontale del potere statale attraverso l’istituzione più vicina al cittadino stesso atta a rappresentare la sovranità popolare, ma con un paradossale adeguamento ad esigenze che sono al di là o fuori dall’interesse dello Stato, così come invece è statuito dalla nostra Carta Costituzionale. Lo Stato, insomma, abdica a favore del mercato.

E lo fa anche nella scuola, dove concetti come “competenza”, “cum-peto”, “risposta a”, si fanno quadro teorico di riferimento ideologico, la scuola non più come comunità educante ma come terreno di applicazione di logiche di mercato competitive desunte dal mercato stesso; basti pensare al cosiddetto POF, “Piano dell’offerta formativa”, la novità della cosiddetta “Scuola dell’Autonomia”, perché lì dove c’è una domanda di mercato bisogna prontamente rispondere con un’offerta.

Se a tutto questo aggiungiamo la Riforma del Titolo V della Costituzione, con l’attuale sistema in cui alle Regioni (a Statuto ordinario) spettano le competenze non espressamente demandate allo Stato, riforma che quindi ha attuato l’indebito capovolgimento della potestà legislativa a favore di regioni che diventano sovrane a danno dello Stato lì dove non sia espressamente smentita la loro sovranità, abbiamo un quadro che si delinea con forza come un tentativo sin qui riuscito di progressivo smantellamento del sistema costituzionale, con le sue garanzie di tutela dei livelli minimi dei servizi e dei diritti essenziali del cittadino in ogni parte dello Stivale.

È allora di immediata evidenza come non sia non soltanto non etico ma anche e soprattutto incostituzionale immaginare uno Stato in cui se sei a Milano o a Verona puoi avere una scuola dove non ti piova dentro ogni inverno e se sei a Piazza Armerina o a Mazzarino debbono caderti sulla testa pezzi di intonaco a ogni goccia che piova.

La brutalità di questa brutta, bruttissima metafora che però rappresenta appieno ciò che ogni giorno noi insegnanti dobbiamo sopportare sul luogo di lavoro, peraltro costretti a fare nostri pratiche e principi teorici e didattici che non rispondono ai bisogni del discente relativi alla costruzione di processi di apprendimento, ma a logiche di mercato in cui ciò che conta è cosa sappia fare il discente in relazione alle esigenze del mercato stesso, in cui non siamo più facilitatori e maestri della e nella edificazione di “saperi”, ma complici di modelli di riferimento e stereotipi e linguaggi che definiscono “prodotti” i “processi”.

Sappiamo come la concessione di maggiore autonomia alle regioni, a certe condizioni, è prevista dalla Costituzione

Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione stabilisce, infatti, che le regioni con i bilanci in ordine possano chiedere di vedersi assegnate maggiori competenze rispetto a quelle previste normalmente per le ragioni a statuto ordinario. L’elenco delle competenze esclude una serie di temi, come la tutela dell’ordine pubblico, che rimangono in ogni caso esclusiva competenza dello Stato. La scuola è, insomma, la “tipica” competenza statale che le regioni cosiddette virtuose potrebbero chiedere di gestire direttamente. E qui casca l’asino.

Nel 2017 i governi regionali di Lombardia e Veneto, per dare maggiore peso politico alla richiesta da avanzare nei confronti dello Stato, avevano proposto un referendum consultivo, pertanto non vincolante, che aveva avuto come esito in entrambe le regioni il “Sì”.

L’Emilia-Romagna, invece, aveva attivato le procedure senza referendum e dopo un voto in consiglio regionale. Il 28 febbraio del 2017, sul finire della precedente legislatura, il governo di Paolo Gentiloni aveva sottoscritto con Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia tre distinti accordi preliminari, che individuavano i principi generali, i metodi e un primo elenco delle materie oggetto dell’autonomia, in vista della definizione dell’intesa che sembrava dovesse arrivare in tempi piuttosto brevi.

E invece, per fortuna direi io, con le successive elezioni politiche e il lungo iter di formazione del governo, sembrava che il processo di emersione della autonomia differenziata si fosse arenato. Ma ultimamente, su spinta leghista prima e con discussioni non ancora sopite, il disegno è stato “scongelato” e secondo le intese preliminari tra Stato e Lombardia, Veneto e Emilia-Romagna, queste regioni otterrebbero solo inizialmente le risorse in base al costo storico, quindi in base a quanto già spendevano per una determinata competenza (calcolato nell’anno di approvazione definitiva della richiesta), ma entro un anno dall’accordo definitivo si dovrebbero definire i fabbisogni standard, ovvero dei parametri a cui legare le spese fondamentali per assicurare un graduale e definitivo superamento del criterio della spesa storica.

Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna: le tre regioni che da sole costituiscono la maggioranza del PIL italiano, circa il 60%, mentre le rimanenti 17 regioni messe assieme si dividono soltanto circa il 40% del PIL.

Questo significa che l’autonomia differenziata costituisce la secessione dei ricchi, la realizzazione somma dei vecchi sogni di gloria della Padania, sogni spacciati con un linguaggio aulico volutamente manipolativo del testo costituzionale, asservito allo scopo precipuo: depauperare il sud di ogni risorsa per la Scuola, la Sanità, il Welfare, i servizi essenziali alla persona, spacciando la questione meridionale per una boutade creata dai fannulloni sudisti per “rubare” al ricco nord il frutto del suo lavoro.

Il sud Italia schiacciato come il sud del mondo, e qui per dovere di sintesi tacciamo delle cause, ma non possiamo nascondere la testa sotto la sabbia come gli struzzi e non gridare a voce alta che quel PIL delle regioni ricche lo abbiamo creato anche noi del sud, con il nostro ingegno, con il nostro lavoro ma anche come consumatori dei prodotti del nord.

E così ritorniamo alle premesse, quelle del mercato, del mercato distorto o se preferite del mercato così come è e come non può non essere, e forse su questo ha ragione chi sostiene che il mercato, neanche con le più buone intenzioni, si possa addomesticare.

Qualsiasi sia la premessa ideologica di partenza, è però chiaro che l’errore più grande commesso dallo Stato, soprattutto negli ultimi decenni, sia stato asservirsi totalmente alle logiche del mercato a ogni livello, alla legge del più forte, di colui che vince la “competizione”, dunque già a partire dal linguaggio sconfinando dai suoi ambiti nella rispondenza a dinamiche e modelli, che nulla hanno a che fare con l’interesse statale.

Ed è proprio questo che lo Stato non deve fare. Noi rifiutiamo come lavoratori della conoscenza, maestri e professori, la logica del mercato applicata alla scuola e al mondo dell’istruzione, della formazione, della ricerca e dell’università.

Per questo, abbiamo il dovere di rispedire al mittente queste provocazioni leghiste, quel modello di società che prende a calci l’ultimo e poi lo lascia al suo destino, come una cosa posata in un angolo e dimenticata, per dirla con Ungaretti.

È vero che nella carrellata, da me brevemente enucleata, il processo di smantellamento del principio solidaristico alla base di una Costituzione che trova nell’art 3 e nel concetto di uguaglianza non solo formale ma sostanziale il principio cardine dell’intero sistema democratico, è passato da governi di sinistra o se preferite di centrosinistra.

Ma qui e adesso e ora non è tempo di recriminazioni, è tempo di azione Siamo in emergenza, emergenza costituzionale. Giù le mani dalla nostra dignità di gente del sud, di lavoratori, di maestri, di professori, di lavoratori della conoscenza. Giù le mani dalla Costituzione.
Vasily Lotario

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